Grazie agli additivi viene creato un tribofilm tenace e resistente sulle parti meccaniche in movimento
Dopo aver accennato agli additivi che agiscono quando il regime di lubrificazione non è idrodinamico e avvengono contatti (più o meno estesi) tra le microscopiche irregolarità delle superfici accoppiate, vediamo come agiscono e quali interessanti novità potrebbero interessare il settore. Gli obiettivi sono sempre la riduzione della resistenza al movimento (cioè l’attrito) e la protezione delle superfici nei confronti dell’usura.
Gli additivi che vengono impiegati possono agire in diversi modi ma il risultato finale è sempre la creazione di un tribofilm tenace e resistente sulle parti interessate. Nei casi più semplici si tratta di un sottile strato che aderisce o che viene parzialmente adsorbito sulle superfici metalliche. Altre volte in seno all’additivo possono aver luogo reazioni che possono portare alla formazione di tribopolimeri che si attaccano alle superfici interessate. Ad attivarle possono essere la temperatura o la pressione o anche l’azione catalitica del metallo stesso. Non è detto però che tali interazioni complesse siano eguali per le superfici in acciaio e per quelle con un riporto duro (come il DLC) e che diano origine a tribofilm di eguale efficacia. Vi è anche un altro meccanismo che può portare alla formazione di uno strato superficiale di protezione. È quello che prevede, sotto elevate temperature e/o pressioni localizzate, il verificarsi di reazioni tra l’additivo e il metallo. È tipicamente il caso degli additivi EP (extreme pressure) che in tali condizioni estreme danno luogo alla formazione di un film protettivo solido.
Tra gli antiusura i ditiofosfati di zinco (ZDDP) sono i più efficaci e i più diffusamente impiegati. Di recente però la massima quantità ammessa negli oli per motori automobilistici è stata drasticamente ridotta dato che il fosforo
presente in tali composti alla lunga riduce la durata delle marmitte catalitiche. In campo moto va meglio, grazie alla JASO, che ha stabilito limiti diversi, sia in fatto di viscosità minima che per quanto riguarda la quantità massima di ZDDP (del 50% maggiore rispetto agli oli auto). Le norme emanate da tale ente giapponese prevedono il superamento di test particolari (non adottati per i lubrificanti automobilistici) tra i quali spicca la resistenza allo slittamento della frizione.
Le superfici metalliche vengono efficacemente protette quando questo additivo si decompone e reagisce (con se stesso) per formare un tribofilm contenente fosfati di ferro, ossidi di ferro, zinco e fosfato di zinco (che sembra essere lavera e propria matrice).
Per sostituire, almeno in larga misura, lo ZDDP sono stati sviluppate diverse altre sostanze, tra le quali hanno fornito risultati decisamente buoni alcune derivate dall’acido borico. Assai promettenti sono gli esiti delle prove effettuate con alcuni additivi a base di titanio, impiegati unitamente a ridotte quantità di ZDDP. Pure le caratteristiche dei film protettivi di ossido di ferro e titanio (FeTiO3) sono incoraggianti. Di straordinario interesse per la riduzione dell’attrito e dell’usura sono le nanoparticelle, così chiamate perché le loro dimensioni sono talmente ridotta da venir misurate in nanometri, ovvero in millesimi di micron (il quale a sua volta è già un millesimo di millimetro!).
Hanno dato risultati molto buoni quelle di bisolfuro di tungsteno, di ossidi di zinco e di rame e di bisolfuro di
molibdeno, aventi diametri in genere compresi tra 10 e 120 nm. Sembra che i contatti diretti tra le superfici vengano impediti in tre modi. Il primo prevede che le particelle di forma tondeggiante (se non addirittura sferiche) si comportino
pressappoco come i corpi volventi dei cuscinetti a rotolamento. Il secondo che esse scorrano e il terzo che sotto elevata pressione si rompano e formino nanosheets, ovvero sottilissimi film aderenti alle superfici. Inoltre talvolta le nanoparticelle interagiscono con le superfici. Come additivi funzionano molto bene (almeno nelle prove effettuate in laboratorio, che comunque sono più che affidabili ed estremamente indicative), impedendo che tra le microasperità delle superfici possano verificarsi saldature localizzate anche in condizioni di lubrificazione estremamente critiche. La quantità che consente di ottenere i migliori risultati di norma è molto ridotta (dell’ordine dell’1 o del 2 % in peso). Le nanoparticelle potenzialmente valide come antiusura oggi in fase di sperimentazione sono oltre quaranta.
Molto importante è che esse vengano disperse uniformemente nell’olio (cosa non tanto facile). Di grande interesse sono i nanosheets di grafene (sottilissimo strato “reticolare” di atomi di carbonio con legami sp2 (grafite) e i nanolubrificanti contenenti fullerene (strutture di forma pressoché sferica costituite da 60 atomi di carbonio). Hanno caratteristiche che li rendono molto interessanti per una eventuale utilizzazione come additivi antiusura i liquidi ionici, costituiti da sali fusi che a temperatura ambiente sono appunto liquidi. Perfettamente miscibili con gli oli, formano tribofilms sulle superfici metalliche. Dopo questa autentica immersione nel futuro, terminiamo con un paio di considerazioni pratiche e attuali. In campo auto l’abbinamento tra bassa viscosità e ridotta quantità di ZDDP (più altri additivi delle ultime generazioni) fa sì che gli oli più recenti non vadano bene per i motori delle generazioni precedenti. E viceversa, che gli oli di “categorie” API sorpassate non debbano essere impiegati sui motori moderni.
Nello sviluppo degli oli sono fondamentali lo studio delle interazioni tra il lubrificante e le superfici (metalliche o del rivestimento) e la determinazione delle quantità ottimali dei diversi additivi, considerando anche che possono reagire tra loro. Tutti quelli impiegati devono essere compatibili. Alcuni di essi possono addirittura avere effetti sinergici ma non di rado ci sono additivi che risultano in competizione tra loro (tipicamente, per “attaccarsi” alle stesse superfici metalliche!) o possono addirittura essere antagonisti.
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