La disciplina visse la diffusione a fine Anni ‘50, grazie anche alle proposte Mi-Val, Aermacchi, Bianchi, fino alla Guzzi
Nel 1960 la Bianchi conquistò il titolo della 250 e si piazzò al secondo posto nella 500 con due moto di nuova progettazione, eguali praticamente in tutto salvo che nelle misure caratteristiche e, quindi, nella cilindrata. Si trattava di due monocilindriche, che avevano esordito già nel 1959, dalla tecnica raffinata, più da GP che da Fuoristrada: non c’era da stupirsi, dato che erano state progettate dal tecnico Lino Tonti, il quale, da buon romagnolo, le corse di Velocità le aveva nel sangue. Nel motore spiccava la distribuzione con due alberi a camme in testa molto vicini tra loro e comandati da un alberello verticale, con due coppie di ingranaggi conici alle estremità. La 250 aveva un alesaggio di 71 mm e una corsa di 62 mm ed erogava circa 26 cavalli. La versione di cilindrata maggiore nacque come 350 ma poi salì a 400 (82 x 74 mm), con una potenza dell’ordine di 33 cavalli. Il basamento era fuso in lega di alluminio mentre i coperchi laterali (e il castello della distribuzione fissato sopra la testa) erano in magnesio.
Il cilindro, che nella versione di maggiore cilindrata aveva due alette in più, era in lega di alluminio con canna riportata in ghisa. L’accensione, del tipo a ruttore e batteria, era doppia. Pure in questo caso la trasmissione primaria era a ingranaggi e la lubrificazione era a carter umido. Il cambio era a cinque marce. Nella parte ciclistica faceva bella mostra di sé il telaio in tubi di acciaio con doppia culla inferiore e traliccio superiore (a doppia triangolatura). La forcella era un’Arces a perno avanzato e i freni, del diametro di 180 mm, erano gli stessi impiegati sulla MT 61 militare. Per le sue caratteristiche di erogazione questa moto spesso sollevava grandi quantità di ghiaia e terriccio in accelerazione e per questo venne soprannominata “Raspaterra”.
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