Oltre cent’anni fa nasceva la Suzuki Loom Manufacturing Company come società per azioni: l’espansione dai telai da filatura ai motori non ha mutato la filosofia voluta dal fondatore Michio: ogni presidente della compagnia ha avuto il cognome Suzuki. E qui, i campioni, vengono allevati in casa, come fossero figli
Viene da sorridere, guardando l’elenco dei presidenti succedutisi al vertice della Suzuki dalla fondazione a oggi. Sono sette e portano tutti lo stesso cognome: Suzuki. Osamu, che è stato in carica due volte e oggi è chairman, era nato Matsuda ma ha sposato la nipote del fondatore, Shoko, e ne ha assunto il cognome.
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Il presidente attuale, Toshihiro, è suo figlio. Difficile definire “a conduzione familiare” un colosso con un capitale sociale superiore a 1,18 miliardi di Euro, con circa 15.500 dipendenti - nel marzo 2019, ultimo dato utile -, ha sedi e filiali in tutto il Mondo, è impegnato nei settori moto, auto e motori marini. Però è indicativo dello spirito che lo permea: la componente ”tradizione” è fortissima, almeno quanto l’orgoglio. La Suzuki a volte ha proposto innovazioni rivoluzionarie, altre volte ha preso strade poco logiche agli occhi di un europeo, ma l’ha sempre fatto motu proprio, di sua iniziativa, mai cercando di allinearsi alla concorrenza.
Già Michio Suzuki, il fondatore, la pensava così, e con questo spirito nel 1908 inventò un telaio da filatura dieci volte più veloce dei concorrenti. Fu l’inizio della sua fortuna: cominciò a costruirli in serie e un anno dopo fondò la Suzuki Loom Manufacturing Company. Michio aveva appena 22 anni, e ne aveva 33 quando la sua impresa divenne una società per azioni che esportava in tutto il Sud-Est asiatico. Il ragazzino figlio di coltivatori di cotone faceva strada in fretta, e parallelamente nel 1937 completò il prototipo di un’automobile, progetto interrotto dalla Seconda Guerra mondiale che vide lo stabilimento della Suzuki Corporation convertirsi alla produzione di munizioni e subire pesanti bombardamenti. La ripartenza post-bellica fu faticosa e la svolta venne dalla pigrizia e dal genio di un altro Suzuki, il figlio Shunzo, che nel 1957 divenne il secondo presidente.
Amava andare a pescare in bicicletta ma quando i forti venti soffiavano in senso opposto pedalare diventava faticoso: ci voleva un motore ausiliario: nacque così nel 1952 la prima bicicletta a motore Suzuki, “Power Free”. Fu un successo, replicato dal modello Diamond Free, più potente. Il consenso fu tale che la Suzuki Loom (telai) diventò Suzuki Motor Co. Ltd. e nel 1955 mise sul mercato la prima auto, la Suzulight, una vetturetta con innovative sospensioni a braccetti oscillanti e sterzo a cremagliera.
Le cose cominciavano ad andare molto bene, nel 1958 venne selezionato il logo Suzuki - la famosa “S“ - fra più di 300 proposte, progettato da Masamichi Tezeni; nel 1965 venne posto in vendita il primo motore fuoribordo Suzuki, il D55 a due tempi da 5,5 CV. Nel 1970, 50º anniversario dell’azienda, comparve la prima auto a propulsione elettrica, e nello stesso anno venne commercializzato Jimny, il primo fuoristrada 4x4; nel 1971 arrivarono sia le motoslitte che le imbarcazioni di medie dimensioni e gli spazzaneve.
Si lavorava anche sul fronte delle corse e proprio 60 anni fa, nel 1960, vennero iscritte tre 125 ufficiali al Tourist Trophy, primo timido passo a cui seguì l’anno dopo la partecipazione a parte del Motomondiale nelle classi 125 e 250, senza che venisse raccolto un solo punto. Ma a fine stagione arrivò Ernst Degner e con lui i titoli iridati piloti e costruttori classe 50 nel 1962, l’inizio di una avventura che di lì al 1970 avrebbe portato nove titoli piloti e otto costruttori tra 50 e 125. Sarebbe poi proseguita nelle cilindrate maggiori, e nel frattempo cominciarono ad arrivare i risultati nel Motocross: nel 1971 il primo titolo iridato, con Joel Robert, cui ne seguirono altri 28 nelle varie categorie – tra i quali il primo di un italiano in questa specialità, Michele Rinaldi in 125 nel 1984 – più 31 titoli costruttori e otto (tre piloti e cinque costruttori) nel Supercross americano.
Nella sua poliedrica espansione, la Suzuki non poteva rimanere inattiva tra le moto di produzione. Nel 1965 la T20 Super Six, 250 cm³ due tempi da 160 km/h, bicilindrica e con il cambio a sei marce, lanciò la Casa di Hamamatsu sulla scena internazionale. Ma è nel 1970 che cominciò la leggenda, con l’importazione in Italia della bicilindrica T500 J Titan, seguita nel 1971 dalla GT750 tre cilindri e l’anno dopo dalla GT380, pure tre cilindri, tutte a due tempi. Sarebbe poi passata al quattro tempi nel 1977, con la quattro cilindri GS750, seguita nel 1978 dalla GS1000 che fece faville nella Superbike americana, vincendo con Wes Cooley e Mike Baldwin la prima edizione della 8 Ore di Suzuka. Nel Motomondiale 1974 venne schierata per la prima volta la RG 500, rivoluzionaria quattro cilindri in quadrato: due volte iridata con Barry Sheene (1976 e 1977) e altre due con Marco Lucchinelli (1981) e Franco Uncini (1982), fu per molti anni il cavallo di battaglia dei piloti privati. E mentre Lucky sventolava la sua iride, la Suzuki sventolava la Katana: con lo stesso nome della spada dei samurai entrava in commercio una quattro cilindri sportiva dalle linee aggressive e shockanti, prodotta nelle cilindrate 750 e 1000.
Le portarono via la scena nel 1985 la GSX-R 750, 100 CV per 176 kg, che avviò una nuova generazione di supersportive e in quello stesso anno vinse la 24 ore di Le Mans, e la RG 500 Gamma, stradale due tempi quattro cilindri in quadrato fortemente ispirata alla moto da GP; ma quella con cui nel 1993 Kevin Schwantz vinse il Mondiale aveva già i cilindri a V.
Della Casa di Hamamatsu il texano è stato a lungo la bandiera, come in precedenza lo era stato Sheene, perché l’azienda ha sempre cercato di coltivare i propri piloti e tenerseli poi per tutta la carriera, richiamandosi a una filosofia… familiare. Tentò di farlo anche con Kenny Roberts Junior, figlio del grande King Kenny, che nel 2000 vinse il titolo della 500. Ma di lì alla fine del 2005, quando tornò alla squadra di papà, Junior non ottenne altri risultati di rilievo: l’impegno della Casa si era ridotto e le moto realizzate per la neonata MotoGP non erano competitive. E Kenny jr peraltro non aveva lo stesso spessore del padre.
Così il 1999 più che per il suo ingaggio è da ricordare per la comparsa della GSX-R 1300 Hayabusa, ipersportiva dalle prestazioni mozzafiato, per la presentazione della SV 650, bicilindrica d’accesso che avrebbe fatto furore, e per il Burgman 400, capostipite dei maxiscooter. Nel 2002 arrivarono anche il gigantesco bicilindrico Burgman 650, primo scooter con il cambio sequenziale, e la V-Strom 1000, seguita due anni dopo dalla 650, criticate per la linea eppure apprezzatissime per le caratteristiche eccellenti. Il tutto, parallelamente all’evoluzione in campo auto, con Maruti, Vitara e Swift. E nel 1990 il nome dell’azienda divenne Suzuki Motor Corporation, sottolineando l’impegno nei vari settori dell’automotive.
Come dimenticare poi nel 2005 il lancio dello slogan “Way of Life”, biglietto da visita dell’azienda, l’inaugurazione nel 2009 del Suzuki Plaza, il centro espositivo che raccoglie la storia Suzuki dalle origini a oggi, ma soprattutto gli scossoni generati dall’introduzione delle successive serie di GSX-R 1000 nel 2001 e nel 2005? Erano le icone della moto sportiva e portarono ad Hamamatsu enormi soddisfazioni soprattutto nella Superbike dove la presenza era semiufficiale, attraverso il Team Alstare: tra il 1999 e il 2011 la squadra belga colse numerose vittorie e nel 2005 il Mondiale con Troy Corser, mentre in Supersport con la GSX-R 600 conquistò i titoli 1998 e 1999 con Fabrizio Pirovano e Stéphane Chambon. Con Alessandro Polita arrivò il titolo Superstock 2006, nello stesso anno in cui la naked GSR 600, look un po’ particolare ma efficiente ed economica, fu la moto più venduta in Italia con 7745 unità.
Sul piano delle vendite la musclebike B-King 1400 del 2008 fu accolta tiepidamente ma il suo compito era stupire e lo fece molto bene. La sostanza erano invece le nuove versioni 600 e 750 della GSX-R lanciate in quello stesso anno, seguite nel 2009 dalla 1000. Famiglia importantissima quella delle GSX-R, divenuta la sportiva per eccellenza nell’immaginario collettivo e capace di toccare nel 2012 il milionesimo esemplare prodotto. Oggi siamo arrivati alla sesta generazione della 1000, lanciata nel 2016; sulle spalle un palmares di 12 titoli iridati nell’Endurance, 10 nel campionato americano Superbike, otto vittorie nella 24 Ore di Le Mans e 17 al Bol d’Or. Contemporaneamente alla GSXR/R sono stati presentati altri otto modelli, tra i quali V-Strom 1000/XT, V-Strom 650/XT, GSX-S750 e l’ultima versione del Burgman 400.
Dall’anno prima, il 2015, è ripreso l’impegno in MotoGP e sono arrivate le vittorie, con Maverick Viñales nel 2016 e Alex Rins (due volte) nel 2019 (prima del titolo mondiale di Joan Mir). Due piloti, guardacaso, pescati direttamente dalla Moto2, con l’intenzione di crearsi i campioni in casa. Perché anche se il 15 marzo ha festeggiato il centesimo anniversario dalla fondazione del primo nucleo, la Suzuki Loom Manufacturing Company, la filosofia “familiare” non la cambia.
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