I primi costruttori venivano da Francia e Italia: i Ramonot aprirono la strada nel 1924, poi fu il turno degli emiliani Raffaldi, Preda e Fattorini
Studiando la storia della motocicletta in Argentina ci si imbatte continuamente in cognomi indiscutibilmente italiani: ingegneri, artigiani, imprenditori, piloti. Niente di strano, in un Paese in cui si calcola che almeno 30 milioni di abitanti - dei 46 milioni che lo popolano in una superficie che lo colloca all’ottavo posto fra gli Stati più grandi del Mondo - abbiano almeno un antenato italiano. Naturale, quindi, dare spazio anche in questa rubrica all’Argentina e ai suoi legami con l’Italia, soprattutto considerando il ruolo fondamentale che alcune nostre Marche e tanti nostri emigrati hanno ricoperto nel locale sviluppo del motociclismo, industriale e agonistico.
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Ciò detto, scopriamo però che la prima moto costruita in Argentina fu creata da un oriundo francese, Paul Ramonot, nato nel 1864 a Saint-Etienne, antica città a sud-ovest di Lione, e trasferitosi nel 1880 a Buenos Aires. In Francia era stato apprendista presso un fabbro e aveva imparato a lavorare i metalli, così, pur essendo soltanto sedicenne al suo arrivo in Argentina, si scoprì subito imprenditore, e in società con un falegname - anch’egli di origine francese - aprì un’officina per la costruzione di giostre in metallo con cavallucci di legno. Ma a Buenos Aires in quegli anni stava infuriando un’epidemia di colera e febbre gialla, così dopo una breve permanenza, Paul Ramonot, temendo di esserne colpito, decise di stabilirsi a Mendoza, 1000 km a ovest della capitale, e precisamente nel sobborgo di Barriales, dove aprì un’officina per riparazioni varie. Anche a Mendoza e nella sua vasta provincia la risorsa più importante alla fine del 1800 era l’agricoltura, e studiandone le esigenze alla ricerca di opportunità, Ramonot constatò la grande arretratezza dei mezzi a disposizione dei contadini per la lavorazione dei terreni. Da questa considerazione nacque in lui la volontà di produrre moderni attrezzi agricoli, come carri e aratri metallici anziché in legno; si mise all’opera in una piccola fabbrica e lanciò i suoi prodotti con il marchio Boer. Il successo fu immediato.
Fino al 1920 l’attività di Ramonot e di Enrique e Alberto, due dei suoi sette figli nati dal matrimonio con Eloisa Pairet, si concentrò sulle forniture per l’agricoltura, ma non era sfuggita loro, nel frattempo, la crescita della richiesta di veicoli popolari motorizzati. Ancora una volta lungimiranti, padre e figli concepirono una bicicletta a motore e dopo un primo insuccesso, dovuto alla scarsa resistenza del telaio, progettarono e costruirono un’autentica motocicletta. La produzione ebbe inizio nel 1924 e tutti i pezzi erano realizzati in proprio. Su un robusto telaio a culla semplice chiusa e rialzata, con sospensione elastica soltanto sulla ruota anteriore, era collocato un motore a due tempi di 100 cm³ che nella prima versione aveva il raffreddamento ad aria, mentre successivamente venne dotato di raffreddamento ad acqua. Tutto era all’insegna della massima semplicità, compresa la trasmissione, priva di frizione e cambio, ed effettuata con cinghia in gomma.
L’iniziativa fu accolta favorevolmente nella regione e per soddisfare la domanda i fratelli Enrique e Alberto Ramonot si videro costretti a effettuare investimenti che poterono sostenere accogliendo dei soci e fondando l’impresa “Sociedad Industrial Motocicletas Argentina (SIMA)”, che operò fino al 1939 producendo circa 3000 moto in quattro diversi modelli. Una piccola fabbrica fu allestita a Palmira, città in provincia di Mendoza, che nel 1987 godette di un momento di celebrità internazionale quando si diffuse la voce – mai provata – che lì si fosse rifugiato Hitler con Eva Braun fuggendo dalla Germania e fosse sepolto nel locale cimitero.
Nel 1946 il governo argentino con a capo il presidente Juan Domingo Peron offrì ai fratelli Ramonot il capitale necessario per riprendere e allargare la produzione delle motociclette in una nuova e moderna fabbrica, ma essi rifiutarono e si dedicarono ad altre attività. Conclusosi questo capitolo che lega le origini del motociclismo argentino a immigrati francesi, inizia quello degli italiani e data al 1948, quando nella repubblica latino-americana arrivarono da Piacenza nove nostri connazionali: Carlo Preda con la moglie e due figlie, Roberto Fattorini con i genitori e la sorella, e Giovanni Raffaldi. Carlo Preda, nato nel 1913, aveva lavorato all’Arsenale Militare. Di carattere aperto, era sempre pronto ad aiutare il prossimo e fu di grande aiuto nel soccorso delle vittime dell’8 agosto 1940, quando a Piacenza due scoppi devastanti nello stabilimento militare della Pertite - dove un migliaio di persone lavorava a pieno ritmo al caricamento degli esplosivi - causarono una cinquantina di morti e cinquecento feriti. Nell’incidente - o attentato, secondo un’altra ipotesi - perse la vita il cognato di Preda, Ettore Albanese, la cui moglie Paola rimase gravemente ferita.
Dopo il licenziamento dall’Arsenale, Carlo Preda si trasferì sui colli piacentini per collaborare con i partigiani, senza mai perdere i contatti con l’amico Fattorini, classe 1926, che gestiva con i genitori un piccolo bar sulla strada del Belvedere, e con l’altro amico Raffaldi, nato nel 1906, che lavorava nel mulino dei suoi anziani genitori. Ognuno per campare svolgeva la propria attività, ma i tre amici erano accomunati da un’identica passione: la meccanica. Nessun motore aveva segreti per loro; il sogno dei tre, finita la guerra, era aprire una fabbrica di motociclette.
Con grande sacrificio, lavorando il sabato sera e la domenica, componendo piccoli motori quasi sempre di amici, erano riusciti a montare una minuscola officina sotto il portico del mulino di Raffaldi. A parte Preda, che aveva qualche nozione di calcolo, l’apprendimento da parte dei tre piacentini era del tutto empirico. A forza di provare e riprovare, qualcosa erano riusciti a concludere, nonostante la cronica scarsità di soldi. E la voglia di emergere era tanta, che quando si presentò l’occasione di emigrare in Argentina, grazie al contatto con un cugino della moglie di Carlo Preda residente a Bahia Blanca, la decisione fu quasi immediata.
Pieni di illusioni e speranze, si imbarcarono tutti assieme sul vapore Santa Fe. Arrivati a Buenos Aires, li aspettava ancora una giornata intera di treno attraverso la pampa, polvere e vento, orizzonti sterminati. Erano in nove e dovevano adattarsi a una difficile vita in comune nella casa in affitto fuori città che il parente di Preda aveva trovato per loro. All’inizio non si sottrassero a qualsiasi lavoro per sopravvivere, conservando il sogno di sempre: la fabbrica di motociclette. Fu così che si arrivò al miracolo. In una piccola officina, quasi un buco, i tre amici, sotto la direzione di Carlo Preda, unendo pezzo dopo pezzo misero assieme un eccellente modello di 12 cavalli, con due cilindri verticali paralleli, che poteva raggiungere una velocità di 110 km orari. Venne chiamato RPF unendo le iniziali dei cognomi dei tre costruttori.
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