SBK, Fogarty: "Ero amato perché la gente si rivedeva in me" | Storie Sprint

SBK, Fogarty: "Ero amato perché la gente si rivedeva in me" | Storie Sprint© GpAgency,Archivio Motosprint

La nostra intervista esclusiva a Carl: "Non avevo paura di esprimere ciò che pensavo e vincevo grazie al mio stile, sia in pista che fuori"

13.08.2024 ( Aggiornata il 13.08.2024 17:15 )

Gli occhi di Carl Fogarty, sgranati, posseduti. La capacità di fulminare con lo sguardo, la trasparenza di un uomo disposto a tutto, finestra sull’abisso di un pilota feroce, pronto a mordere, istintivo, spietato, mai diplomatico. Parole come candelotti di dinamite, quelle del britannico classe 1965: non aveva freni di fronte ai microfoni. Il discorso andava sempre nella stessa direzione, sminuire gli avversari e aumentare la propria statura. Quella di una figura che 30 anni fa metteva le mani sul primo di quattro titoli iridati in Superbike, tutti in rosso, sulle Ducati.

Risultati capaci di elevarlo a simbolo di un campionato che assieme a lui ha vissuto una delle sue parentesi più avvincenti e convincenti, dove le scintille espresse in pista hanno innescato dialoghi di fuoco, litigi, polemiche e anche di più. Come al parco chiuso di Assen nel 1998, quando il compagno di colori Pierfrancesco Chili, furioso, secondo alcune cronache avrebbe mollato all’inglese un colpo sul casco prima di prenderlo a male parole. Fogarty nella zuffa è sempre apparso a suo agio, mai un passo indietro. Difendeva con i denti una posizione esclusiva e sofferta, quella di numero 1 delle derivate di serie, in uno sport che l’aveva costretto a scalare gradini alti e insidiosi: a 20 anni lo status di promessa, poi un paio di infortuni che avevano messo tutto in discussione, costringendolo a rialzarsi sulle proprie gambe, mettere mano al portafogli e dimostrare quanto valeva con una moto che più privata non si poteva.

In fondo a quell’abisso, nelle profondità di un ragazzo che puntava in alto, grinta e ostinazione hanno alimentato la luce della consapevolezza fino alla consacrazione. Perché ai suoi occhi rapiti, capaci di trasmettere qualcosa di simile a ciò che Stanley Kubrick ha estratto da Jack Nicholson in “Shining”, il successo è sembrato possibile anche quando il buio era totale. Da qui la sicurezza che l’ha fatto sentire in diritto di esprimersi come voleva. Anche a costo di provocare qualche smorfia. E parecchie repliche.

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