"A Foggy dico sempre che deve due titoli a sua moglie: quanto è legato a lei e alle figlie! Troy era persino troppo umile, con la sua vena di follia andava a tutta sul mare di Montecarlo all’alba, svegliando Capirossi! In comune avevano talento e determinazione"
Davide Tardozzi, attuale team manager della Ducati in MotoGP, nella sua carriera ha avuto la fortuna e l’onore di lavorare con due piloti che hanno fatto la storia della Superbike, e allo stesso tempo della Casa di Borgo Panigale nelle derivate di serie. Carl Fogarty prima, Troy Bayliss poi, due personaggi non certamente facili da gestire, con cui ha vinto in totale sette titoli iridati nell’arco di 15 anni, e con cui ha collezionato ricordi indimenticabili.
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Come puoi descrivere Fogarty e Bayliss?
“Dal lato umano erano due persone completamente diverse. Fogarty, a dispetto del suo aspetto da ‘cattivo’, era timidissimo, oggi è migliorato un po’. Molto spesso non stava in mezzo alla gente, sopportava poco la notorietà ma perché, semplicemente, era timido. Quando lo dico nessuno mi crede, ma ve lo garantisco! Carl aveva un talento innato, qualsiasi cosa gli mettessi sotto il sedere, lui riusciva ad andare forte. Troy è una persona molto più espansiva, ma con lo stesso fiuto e lo stesso talento di Carl nel far andar forte qualsiasi cosa. Troy ha fatto cose, quando è stato in Ducati, che soltanto lui poteva fare. Ha salvato molte situazioni per la Ducati”.
Qual era il loro approccio in pista?
“Il filo comune era la determinazione. Ci sono piloti che vanno forte, ma hai bisogno di convincerli che vanno forte. E poi ci sono piloti che lo sanno. Loro sapevano di essere dei campioni. Molti lo dicono, di essere forti, ma quelli che spesso devono ripeterlo lo fanno perché non ne sono sicuri. E allora devono ‘convincersi’”.
Cosa ti piaceva di più di uno e dell’altro?
“Di Carl la determinazione, la consapevolezza che comunque in gara sarebbe andato forte anche a dispetto di varie problematiche. Capitò a Hockenheim, nel 1999: prendeva un secondo al giro da Aaron Slight e Colin Edwards, il sabato sera è venuto da noi e ci ha detto: ‘Avete fatto tutto? Domani ci penso io’. E ha vinto, gara e titolo, con l’ultima sua manche conquistata. La cattiveria agonistica di Carl era una cosa che ci tranquillizzava spesso, anche quando le cose non andavano bene. Troy gettava il cuore oltre l’ostacolo, questo mi piaceva: dare il 100% per lui non era assolutamente sufficiente”.
Riusciamo a paragonarli a qualche pilota del presente?
“Faccio fatica ad accostare questi due personaggi a qualcuno, sono gli altri che dovrebbero essere paragonati a loro. Si tratta di due personaggi unici”.
E immaginiamo che non sia stato facile doverli gestire…
“Quasi da mettersi le mani addosso! Con entrambi ho avuto dei momenti molto accesi, che ricordo con piacere e quando ci sentiamo, spesso, ce li raccontiamo. Con Fogarty credo che il culmine lo raggiungemmo nel 1998 quando, finita una corsa in cui andò malissimo sul bagnato, andò via con sua moglie senza salutare nessuno un quarto d’ora dopo la gara. Non riuscii più a rintracciarlo per una settimana. Era sparito totalmente. Mi aveva poi fatto sapere che con quella gara aveva finito di correre. E invece poi nel ‘98 vinse il Mondiale. Ricordo che dopo quella gara ci fu il primo World Ducati Week, e io lo costrinsi a girare il giovedì a Misano sulla pista bagnata perché pioveva".
"Ci fu un litigio di quelli brutti. In pista lui cadde, tornò ai box inferocito dicendomi che l’avevo fatto cadere. Fortunatamente Michaela, sua moglie, prese le mie difese e continuammo a litigare due contro uno. Lui ha vinto quattro titoli, nel 1994 e 1995, nel 1998 e 1999, e io gli dico sempre che due li ha vinti lui e due li ha vinti sua moglie. Michaela è una grandissima donna, spesso le donne dei piloti possono fare la differenza, sia nel bene che nel male. Con Troy il momento di difficoltà vero è stato ad Assen nel 2002: cadde, e poi perse il Mondiale a Imola. Cadde all’ultima curva di Assen semplicemente perché mal sopportava Neil Hodgson che era stato suo compagno di squadra nel BSB. I due non si vedevano assolutamente di buon occhio. Avere Hodgson davanti a lui in quella gara gli fece commettere un errore banale, Bayliss cadde e buttò via punti importanti. Veniva già da un weekend nel quale non era a posto, avevamo avuto una forte litigata durante le prove dietro al box, era un fine settimana storto. Con Troy c’è un rapporto fraterno. Poi capita in tutte le famiglie di avere un momento difficile. Con entrambi ho avuto e ho tutt’ora un rapporto speciale”.
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Qual è il ricordo più bello?
“Con Carl sicuramente nel 1998 in Giappone, con la vittoria del campionato nonostante tutte le traversie e il fatto che volesse smettere. Con Troy, al di là dei Mondiali in Superbike, non c’è dubbio che la gara della MotoGP a Valencia, nel 2006, fu una rivincita per tutti”.
Come andò quel weekend?
“Lui aveva appena vinto il mondiale Superbike, Sete Gibernau non poteva correre e chiesero a Troy di sostituirlo, sebbene non conoscesse le gomme Bridgestone e non guidasse una MotoGP da un anno. Troy pretese che al suo seguito ci fossimo io, Paolo Ciabatti e quello che allora era il suo ingegnere di pista in Superbike, Ernesto Marinelli. Si cominciò con calma il venerdì, poi in qualifica firmò il miglior tempo e a tre minuti dalla fine lo sorpassò soltanto Valentino Rossi. Chiaramente a quel punto cominciarono a crescere le aspettative. C’è chi, grande tifoso di Troy, in una botta di follia scommise sulla sua vittoria per fare una goliardata. Guadagnò poi una valanga di soldi...”.
Due campioni così, quali difetti avevano?
“Quello di Carl era il suo essere scontroso e poco aperto verso il pubblico. Questo era un limite per quello che lui era in quel momento. Negli anni ‘90 Carl, soprattutto in Inghilterra, era un Dio in terra. Non per niente l’hanno fatto Baronetto al cospetto della Regina, era una potenza mediatica, ma non si è mai voluto far carico di quella che era la sua posizione pubblica. Il difetto di Troy era forse il contrario: a volte avrebbe dovuto essere un po’ meno umile. Ma se non ci fosse stato, Troy lo avremmo dovuto inventare”.
Perché?
“Troy è un personaggio molto molto genuino, da campionato italiano di vent’anni fa. Mi ricordo ancora una cosa che mi disse nel primo anno in cui frequentava il paddock della MotoGP. Quando entrò, andò a salutare delle persone ‘comuni’ che lavoravano nel paddock, e vide che queste persone si sorprendevano. Così mi domandò: ‘Perché si sorprendono se li vado a salutare?’. Questa è la sua umiltà, come una persona che pensa: ‘Io sono una persona come te, soltanto che io faccio il pilota e tu un altro mestiere, ma dov’è il problema?’. Lui è così, una persona modesta e umile. Lo è sempre stato e sempre lo sarà”.
Dopo tutti questi anni esiste un rimpianto legato a loro?
“Con Fogarty il rimpianto è quel maledetto, stupido incidente del 2000 che però ha aperto la strada a Bayliss, se vogliamo. Carl non meritava di finire la carriera così, anche perché credo che avrebbe vinto quel titolo senza problemi, e avrebbe avuto ancora anni da protagonista. Per Troy il rimpianto vero fu la mancanza di una situazione congeniale con la Ducati MotoGP. Secondo me avrebbe potuto fare decisamente di più. Troy fece dei podi al primo anno, ma non raccolse in MotoGP in proporzione alle sue capacità e al suo talento”.
Li conosci meglio di tutti: qual è una curiosità “dietro le quinte”?
“Carl ha sempre insistito su un punto: diceva di avere un anno in meno. Ha sempre detto che era del 1966 e invece è del ‘65. Nella sua testa ha sempre avuto un anno in meno, ma non so il motivo! Troy è un pazzo scatenato. Alle 5 del mattino, a Montecarlo, quando il mare era piatto, guidava la sua Cigarette nel porto nuovo perché voleva fare il record di velocità. E Loris Capirossi, che abitava proprio lì sul mare, si arrabbiava perché ogni volta veniva svegliato da quei rumori, e soltanto con il tempo ha capito di chi si trattava... Poi sia Capirossi che soprattutto Casey Stoner, trattano Troy come il loro fratello minore, sebbene Troy abbia più di 50 anni. Casey è una persona ponderata, che pensa, che si preoccupa, Troy è uno che pensa: ‘Come viene, viene...’”.
All’interno dei box, nei fine settimana, avevano un vezzo?
“Carl direi di no, non me ne ricordo. Troy amava molto fare gruppo, avere tutti i suoi uomini intorno prima della gara, salutarli e toccarli. Troy coinvolgeva molto la sua gente. Non potevi non volergli bene! Poi dimostrava la considerazione in modo tangibile. Ai suoi meccanici ha sempre fatto regali, come vacanze, li ha sempre trattati alla pari, come persone che lo aiutavano a compiere certe imprese. Carl era invece più distaccato, era molto per la famiglia. Era veramente legato alle sue figlie e a sua moglie. Lui e le sue donne”.
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