Lo storico team Suzuki valorizzò Ferrari, Lucchinelli e Uncini, un trio da tredici vittorie e due Mondiali 500 a metà tra l’era-Roberts e quella di Spencer. Merito anche di una squadra capace di innovare a livello tecnico: "Motore, freni, gomme, sperimentammo di tutto e nel ‘76 introducemmo le alette..."
Nell’ultimo mezzo secolo soltanto quattro italiani si sono laureati campioni del Mondo della classe regina e due di questi (Marco Lucchinelli e Franco Uncini) devono ringraziare Roberto Gallina. Buon pilota (tre podi nei GP), tecnico, innovatore e team manager di successo, lo spezzino diede vita al team omonimo, con cui esordì nel 1976 nel Mondiale della 500, impiegando fin da subito le Suzuki. Un’esperienza che valorizzò i piloti italiani: prima di Lucchinelli e Uncini c’era stato Virginio Ferrari, e in tre portarono al team tredici vittorie e due Mondiali.
Perché puntò sulla RG500?
“Era la migliore del lotto, un obbligo per chi volesse essere competitivo in 500. La comprai grazie ad Armando Toracca, un pilota di La Spezia che avevo ingaggiato per il mio team. Con la Yamaha 250 aveva vinto al Mugello, poi a Modena era in testa, davanti a campioni del Mondo, quando ebbe un guasto ai freni. La MV Agusta cercava un pilota da affiancare a Phil Read, per sostituire l’infortunato Gianfranco Bonera, e mi chiese di liberarlo in cambio di un rimborso. Anche con quello comprai la Suzuki quattro cilindri”.
Con quella moto affidata a Marco Lucchinelli partiste alla grande: terzo posto in Francia e secondo in Austria. Ma poi al Mugello…
“La settimana prima del GP Italia provammo varie soluzioni, incluso un lubrificante molto famoso: utilizzammo le stesse percentuali di quello che impiegavano tutti ma ci fu un grippaggio in rettilineo. Per la caduta, Marco restò fermo un mese e l’entusiasmo crollò. Anche se poi, una volta ripresosi, chiuse il Mondiale al quarto posto”.
Quell’anno avevate una moto standard. In che modo ci mettevate mano?
“Piccoli lavori, si operava sulla scorrevolezza delle parti, dei cuscinetti. Noi li verificavamo tutti, mentre altre squadre li montavano e basta. E si lavorava sulla messa a punto del motore, sulla detonazione. Avevo un parente, un chimico che lavorava per l’Eni, a cui chiedevo nozioni sulle camere a scoppio. Mi illuminò. Ma le detonazioni dei due tempi ci fecero impazzire, erano difficili da interpretare”.
In che senso?
“Quei motori avevano un anticipo di un millimetro e 26, ma un degrado d’anticipo fino a 14-15 centesimi e non c’era modo di verificare questo anticipo. In seguito la Suzuki fece anche degli anticipi che a tredicimila giri/min andavano a zero”.
Nel 1977 Lucchinelli se ne andò ma il team non si indebolì. Anzi.
“Grazie all’arrivo degli sponsor Nava e Olio Fiat e al sostegno di Hideyuki Miyakawa, boss di Suzuki Italia, potemmo fare tutto il Mondiale e non soltanto le gare più vicine all’Italia”.
A fine anno, poi, la vera svolta.
“Suzuki Italia organizzava un viaggio in Giappone per i migliori concessionari e tra questi c’ero anch’io. Andammo ad Hamamatsu a visitare la fabbrica e li pregai di portarmi a vedere il Reparto Corse. Lì, con un po’ di sfacciataggine, dissi ai responsabili che anch’io avrei avuto piacere a gestire le Suzuki ufficiali per il 1978”.
Le dissero subito di sì?
“No, la risposta arrivò nel gennaio del 1978 a condizione che dessi una delle due moto allo statunitense Steve Baker, campione del Mondo della 750. Baker però aveva un problema, la corporatura minuta, che lo sfavoriva nelle partenze a spinta (mentre nella 750 si partiva in sella, nde). Faceva delle grandi rimonte ma intanto Barry Sheene e gli altri erano lontani”.
Però avevate Virginio Ferrari che all’esordio con una Suzuki factory vi regalò il primo successo nel Mondiale.
“Al Nürburgring, quello vecchio da 22 km. Il merito fu tutto suo, lì ci vuole il pelo. È un po’ come correre il Tourist Trophy, devi avere talento per quelle cose lì. Quell’anno vinse anche l’Italiano della 500”.
Nel 1979 oltre alla 500, la Suzuki vi fornì l’inedita 653 per le gare del Mondiale 750. Che moto era?
“La ricevemmo a fine marzo, era un giovedì, la sballammo sotto gli occhi di Johnny Cecotto e di un tecnico Yamaha. Videro che aveva un codone enorme, così si misero a ridere. Ma risero per poco, perché il giorno dopo gli rifilammo un secondo al giro al Mugello. Virginio viaggiava poco sopra i due minuti al giro, all’epoca un tempo da record, e vinse la 200 Miglia”.
Ancora oggi è considerata una delle moto più terrificanti mai create. Perché?
“Il controllo dell’impennata era il suo problema. Si alzava anche in quarta, per questa ragione non dovevi mai farla scendere sotto i 9mila giri perché altrimenti erano guai, di colpo ti veniva in testa”.
Ne esistono ancora?
“Ce n’è una sola al Mondo, tutta originale, ce l’aveva un collezionista americano. L’abbiamo convinto a darcela e l’abbiamo provata al Mugello. Mio figlio Michele, che pure ha corso, non riusciva a tenere giù la ruota davanti".
A fine 1979 Ferrari se ne andò da vice campione del Mondo, e accanto al nuovo arrivato Graziano Rossi ritornò Lucchinelli. E il vostro contributo cresceva.
"Iniziammo a lavorare molto sui cilindri: facevamo una modifica e la spedivamo in Giappone, loro la provavano e se riscontravano un aumento di potenza producevano i quattro cilindri con quelle caratteristiche”.
Lavoraste anche sulla frenata?
“Certo, perché il problema del due tempi è l’assenza del freno motore. In staccata ti aiuti anche con il freno posteriore ma non essendoci massa nel motore, tende a spegnersi e si innesca il saltellamento. Così feci un’applicazione che denominai Boomerang, che faceva oscillare la pinza nei confronti del disco e della sua piastra di supporto al centro ruota. L’anteriore e il posteriore della moto si abbassavano in contemporanea e la frenata si accorciava di 20 metri”.
Quando la utilizzaste per la prima volta?
“In Finlandia, perché c’era un rettilineo di un km in cui le moto arrivavano a 280 orari e poi una curva da prima marcia. Era un casino fermarsi. Graziano che era un testone disse: ‘Ma figurati se io uso quell’affare lì’. Lucchinelli invece la montò”.
Nel 1981 vinceste il titolo con Lucchinelli, grazie anche ad alcune soluzioni tecniche inedite.
“Pur essendo, in fatto di tecnica, soltanto un appassionato autodidatta, sviluppavo idee che diventavano quasi una fissazione, come quella delle ruote da 16 pollici. Già nel 1975 e 1976 avevo fatto delle prove assurde, spostando il pneumatico posteriore da 150/18 sulla ruota anteriore. La scorrevolezza era forse minore ma appena toccavi il freno eri fermo. Riuscivi a fermarti 50 metri prima, ma non riuscivo a guidarla perché era pesante. Così pensai al servosterzo, elaborandone tre diversi tipi, infine convinsi Gerard Martin, ingegnere della Michelin, a realizzare per noi una gomma da 16 pollici”.
Sembrava una follia.
“Nessuno aveva pensato che un pneumatico più piccolo fosse migliore, invece grazie alla diminuzione dell’effetto giroscopico i benefici c’erano, e dopo alcune gare ci copiarono in molti. Nel giro di tre anni anche la posteriore da 16 pollici prese piede. Il grip in curva era incredibile”.
Quell’anno usaste una specie di ali aerodinamiche, ma per voi non erano una novità, vero?
“Le introducemmo già nel GP Francia del 1976, a Le Mans. Marco decollava quando faceva il dosso nella curva Dunlop, che allora si affrontava in sesta a 240-250 km/h, per cui era costretto a chiudere il gas prima. Così il venerdì pensammo a come rimediare e arrivammo alle ali rovesciate degli aerei: piatta sopra e bombata sotto, per innescare una depressione. Le realizzammo di notte in fibra di vetro. Erano efficaci anche in partenza sull’impennata. Marco, infatti, conquistò il primo podio”.
Il 1982 fu l’anno del bis con Uncini ma la stagione successiva fu un disastro. Perché?
“La nuova moto fu progettata da un ingegnere proveniente dal Trial: pesava 15 kg in meno e aveva un motore piccolissimo, con sei cavalli in più di potenza”.
Bene...
“Mica tanto, perché fu provata sulla pista di Ryuyo, in una configurazione diversa da quella abituale, quindi con parametri differenti. Non riuscimmo a vedere nulla durante i test invernali e quando ad aprile ce le spedirono ci ritrovammo una moto che non stava in strada. Non si poté tornare indietro perché il motore era troppo piccolo e non si poteva montare nel telaio degli anni precedenti”.
E a fine 1983, annata caratterizzata dal terribile incidente di Uncini ad Assen, la situazione precipitò.
“La Suzuki decise di ritirarsi delle competizioni, e a fine anno chiesi a Tadi Matzui, capotecnico, di intercedere con il presidente Osamu Suzuki. Erano stati a scuola insieme, quindi era l’unico che mi avrebbe potuto far parlare con Suzuki senza fare tutta la trafila”.
Riuscì a fissarle l’incontro?
“Sì, e gli dissi che avrei continuato a correre se mi avessero dato le moto e i ricambi, che mi furono garantiti per 1984 e 1985. Ma i risultati non furono più eccelsi”.
È la Suzuki a dover ringraziare Gallina o viceversa?
“Io devo sicuramente di più a loro. Noi abbiamo suggerito delle idee, ma la Suzuki è un’azienda enorme, abbiamo preso tanto da loro, e questa esperienza mi ha permesso di conoscere personaggi incredibili. Peccato soltanto non aver imparato da loro la gestione economica, quando ho avuto un’azienda di costruzioni ci ho soltanto perso”.
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