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I dilemmi degli alberi a gomiti | Officina

Per lungo tempo gli alberi a gomiti dei motori motociclistici sono stati tipicamente realizzati in più parti unite con vari sistemi, tra i quali alla fine si è affermato quello più semplice e razionale, che prevedeva unioni per forzamento alla pressa. I cuscinetti, sia di banco che di biella, erano di norma a rotolamento. Le eccezioni sono state ben poche.

Se i pistoni girano troppo velocemente | Officina

Gli alberi a gomiti


Tra esse spiccavano diversi monocilindrici italiani di impostazione economica e i grossi bicilindrici inglesi. In entrambi i casi, di norma con albero composito, veniva in genere impiegata una soluzione “mista”: cuscinetti volventi per il banco e bronzine (anulari o in due parti) per le bielle. Poi, negli anni Sessanta, qualcosa ha cominciato a cambiare. Mentre iniziava ad avvertirsi un’importante ripresa di interesse nei confronti delle moto, dopo un periodo davvero buio, la Guzzi e subito dopo la BMW hanno presentato le loro nuove bicilindriche di grossa cilindrata con un albero a gomiti forgiato in un sol pezzo che lavorava interamente su bronzine. La Honda ha fatto cominciare una nuova era nella storia della moto con la quadricilindrica CB 750 Four, il cui motore era dotato di albero a gomiti monolitico e di bronzine sia per il banco che per le bielle. Gli altri costruttori giapponesi hanno ben presto seguito la stessa strada. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta le quadricilindriche che impiegavano ancora alberi compositi erano davvero poche. Basta ricordare le Suzuki GSX 1100 e GS 550 e la Kawasaki KZ 1000. Nei loro motori la catena di distribuzione era piazzata centralmente e i supporti di banco erano sei; si evitava così di avere un tratto non supportato tra i due cilindri centrali (cosa non buona, specialmente con un albero in più parti).

I bicilindrici hanno rapidamente seguito la strada dell’albero in un sol pezzo. Svariati anni dopo anche i “mono” hanno iniziato a farlo, ma non diffusamente. Tra i monocilindrici oggi in produzione di serie dominano gli alberi compositi. La cosa non vale però per quelli delle Moto3 che impiegano alberi monolitici (e hanno quindi bielle con testa scomponibile lavorante su bronzine). A questo punto è lecito chiedersi per quale ragione. Mentre infatti per i policilindrici è chiaro che realizzare alberi compositi è più costoso e complesso che realizzare alberi in un sol pezzo (basta pensare al numero di lavorazioni e alla procedura di assemblaggio e di centraggio), per i monocilindrici la cosa non è affatto evidente. In fondo si tratta soltanto di realizzare tre parti dalla semplice geometria (due semialberi e un asse d’accoppiamento) e di unirle saldamente. Dopo alcune variazioni sul tema il sistema di unione che si è affermato definitivamente è il più semplice, con il perno di manovella cilindrico (niente più bordini o doppi diametri) che viene inserito con un’adeguata interferenza nei due bracci di manovella. Occorrono lavorazioni accurate seguite da una grande precisione nell’assemblaggio alla pressa e nel successivo allineamento dei perni di banco (il cosiddetto “centraggio”).

La profondità di piantaggio è dell’ordine di un terzo della lunghezza totale del perno. Quando però si raggiungono regimi di rotazione straordinariamente elevati, come nei motori da competizione, la situazione cambia. La solidità dell’unione tra le parti viene messa seriamente in crisi innanzitutto dalle sollecitazioni meccaniche. Al termine delle gare nelle MV Agusta quadricilindriche bialbero dei primi anni Settanta i perni degli alberi a gomiti pare fossero fuori allineamento di quasi un decimo di millimetro. Gli alberi si erano in una certa misura “avvitati”. Del fatto che potessero “muoversi” si era accorto anche il preparatore della Kawasaki-USA, Rob Muzzy, che per quelli delle sue 1000 bialbero raffreddate ad aria aveva addirittura fatto ricorso a cordoncini di saldatura (impiegati di serie soltanto dalla Suzuki nella sua DR Big 800, che non girava tanto in alto ma in quanto a masse in gioco…). Bene, nonostante questa precauzione in diversi casi le saldature si sono rotte. Fate un po’ voi…

Alberi a gomiti, funzionamento e deformazioni


Durante il funzionamento hanno luogo continue deformazioni elastiche dell’albero, che si inarca quando il pistone va al punto morto superiore e 180° dopo si deforma in modo opposto. In pratica i complessi braccio di manovella-contrappeso compiono un movimento che un tecnico americano ha definito a “orecchie di elefante”. Quando i regimi sono particolarmente elevati il vero problema, in aggiunta alla straordinaria frequenza con la quale si susseguono le sollecitazioni, sono le vibrazioni, causa di un fenomeno simile al fretting, con micromovimenti delle superfici accoppiate; con il tempo l’accoppiamento diventa meno saldo. La forza con la quale vengono “serrati” i perni di manovella, cioè, diminuisce.

Il passaggio agli alberi monolitici, da tempo d’obbligo nei policilindrici per la maggiore razionalità e il minor costo, nei motori molto spinti è diventato importante anche per la rigidezza. Logico dunque che siano interessati anche i monocilindrici di prestazioni più elevate, tra i quali spiccano quelli delle Moto3. Dunque, se si vogliono raggiungere e mantenere a lungo, cioè non soltanto per alcuni giri di pista, regimi davvero molto elevati, come quelli dei moderni motori da competizione, diventa necessario l’impiego di alberi a gomiti in un sol pezzo. A diventare critica allora potrebbe eventualmente essere la testa della biella, che è in due parti unite mediante viti ad altissima resistenza.

Tutto questo, con gli attuali rapporti corsa/alesaggio e le odierne cilindrate unitarie. Per i motori a due tempi la situazione è diversa per via delle minori velocità di rotazione (di poco superiori a 13.000 giri/min nelle ultime 125 da GP). Ma anche perché la necessità di utilizzare cuscinetti di biella a rullini, dovuta alle particolari condizioni di lubrificazione, obbliga a impiegare alberi compositi.

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